VINILE

luna perigeo 2Seduta a terra su una mattonella calda scorrevo i dischi in vinile abbandonati da decenni. Tossivo per la polvere, espellendo la rabbia di una collezione unica, a tratti autografata, in attesa di qualcuno che volesse ascoltarla. C’erano rarità registrate su 45 giri, Trilussa, Ungaretti, Quasimodo recitati da Renato Rascel, i canti di protesta popolare italiani in tre piccoli album dalla grafia bianca e rossa, scene di film e serial televisivi con gli attori sulla copertina, Nino Manfredi, Albertone. C’erano corsi monografici del rock, incluso l’illustrissimo se pur poco conosciuto prog italiano, e allora tra le mie dita impolverate scivolavano LP come “Collage” delle Orme, “Non è poi così lontano” dei Perigeo (il più bello, diceva Giuseppe), un capolavoro dei Cervello intitolato Melos, con canzoni dal titolo “Trittico”, “Galassia”, “Affresco”, parole, armonie e atmosfere eccezionali che male s’intonavano con quella casa in mezzo alla campagna della Tuscia, infiocchettata di antiquariato di prima classe, ma senza vita e senz’anima, e anche senza speranza. E poi in mezzo scorrevano classici dei Genesis, dei Rolling Stones, dei Pink Floyd (che Giuseppe aveva ascoltato ininterrottamente per una settimana di profonda tristezza da adolescente, durante le vacanze estive), ma anche gli anni ottanta con gli Ultravox e i Roxy Music, Blondie, Paola Turci al completo, e di nuovo a ritroso con le ristampe di “Ziggy Stardust”, “The Man Who Sold The World” e “David Live”, per tornare ai suoni dell’Italia più bella che ricordavo e che piangevano in mezzo alle insinuazioni di zanzare tra le copertine, le gambe e le braccia di chiunque mettesse piede lì dentro. Non c’era un giradischi, perché così la malevolenza della casa e del perfetto parco all’inglese avevano comandato. Dov’era finito il vecchio giradischi che avevamo in cameretta a Roma?

Dov’è finito il vecchio giradischi che avevamo in cameretta a Roma? Queste zanzare virulente si insinuano dappertutto, più delle insinuazioni a parole e il blaterare ultra urlato e registrato di anni addietro!” blateravo in attachi di tosse secca a Giuseppe che si aggirava tra una stanza e l’altra.

Alan Sorrenti, “Le tue radici”! Meravigliosa! Che non saranno certo le mie quelle radici, io non ho radici qua!” urlavo a mio fratello mentre lui silenziosamente rimetteva a posto in un altro armadio i dischi che mi ero messa da parte sul letto per portarmeli a casa alla fine dell’estate, con l’intento di comprarmi un giradischi per Natale.

Giuseppe! Alan Sorrenti non lo possiamo lasciare qui, prendi e aggiungi agli altri, prendilo subito, anzi, prendiamoli tutti”.

Sei pazza! Dove lo mettiamo il giradischi a casa? Non sono nostri poi, lo sai!”

Ma gli toglieremmo il malocchio, Giuseppe. Nessuno li vuole, nessuno li calcola. Giuseppe! Giuseppe! Non possiamo lasciare questi dischi qua, sono rarità, gioielli, oggetti meravigliosi dispersi nel vortice perpetuo di energie negative! Sono persone! Giuseppe! Giuseppe, la casa non rivivrà mai!”

Giuseppe non rispondeva.

Non è finita qui. Farò quel che si deve fare, da sola, pensai, decisa a salvare, in un modo o in un altro, quei dischi. Ricordandomi pure che, secondo il mio voto di rispetto per ogni essere vivente, non avrei neanche dovuto schiacciare quella zanzara sul muro.

L’ANGELO DEI PICCIONI – un ricordo di Roma

Hume anticipated stranger

L’avevo incontrato nel bar di via Rodi, frequentato da quattro gatti che vivevano e lavoravano nei dintorni. Era un posto uscito direttamente da un libro di Benni, per questo mi attirò dal primo momento in cui ci misi piede e ci tornai più volte, durante le mie pause di studio, con la scusa del caffè. C’era Adriano, il proprietario del bar, che parlava poco ma aveva l’aria di sapere e controllare tutto e tutti; Pino il barista, un ragazzo minuto dal viso dolce, rotondo, coperto da riccioli, che veniva dalla campagna oltre Casalotti, lo sentii difendere contro un gruppetto di detrattori la canzone “Fiumi di parole”, vincitrice del festival di Sanremo; la ragazza della tintoria, loquace da raccontarmi le richieste di sconti da parte di tutti gli altri avventori del bar per orli, lavaggi e stiraggi in blocco; gli assicuratori, Mauro e Carmine, ovvero il gatto e la volpe per via dei baffetti a punta di uno e la Porsche Carrera dell’altro che luccicava in mezzo al mercato dei fiori di via Rodi e alle contadine con il cesto delle uova sulla testa; c’era Michele, il Richard Gere dei poveri, che davvero assomigliava a Richard Gere, era produttore di film e a casa sua, due piani sopra il mio, entravano e uscivano modelle, ma lui era sempre in canna, tanto che il macellaio all’angolo lo sfotteva pubblicamente per aver chiesto se due etti di bistecca bastavano per una cena per quattro. Poi c’ero io, che con tutti quei personaggi mi ci divertivo senza espormi troppo, ma ero sempre col sorriso sulle labbra e sugli occhi e timidamente iniziavo a passare dal semplice saluto a veloci chiacchierate. Le biciclette e le valigie che entravano e sparivano nel retrobottega sotto la direzione di Pino e Adriano furono il primo segnale che lì dimorassero eventi memorabili, magie e storie in attesa di essere svelate.

E poi c’era l’uomo con il sacchetto di plastica, il più stupefacente di tutti. Secco, scuro, sbandato e vagamente svitato nell’aspetto e nelle movenze, entrava regolarmente con quella busta con i manici annodati e chiacchierava con i baristi e i clienti toccando gli argomenti più disparati: le pietre di fiume, le piante medicinali, la filosofia, che per me rimaneva sempre un termine generico che mai andava oltre a se stesso, e mi meravigliavo che quel tizio con qualche rotella fuori posto ne sapesse più di me. Vestiva con accostamenti unici: giallo e rosso, arancio e blu, verde e viola; la fronte era alta, i capelli quasi inesistenti davanti ma lunghi dietro come in una follia di moda anni ottanta.

Tale era la mia curiosità che pensavo che prima o poi l’avrei seguito mentre con l’inseparabile busta camminava spedito per via Trionfale. Un giorno successe, invece, che fu lui che seguiva me, o almeno fu quello che credetti per un attimo. Ma quando salimmo sullo stesso autobus mi tolsi subito quella illusione: immediatamente andò a salutare degli amici seduti negli ultimi posti e si unì a loro. Era una band musicale con chitarra, contrabasso e fisarmonica. Capii in un attimo che sarebbero scesi a Piazza Navona, come me. La coincidenza mi tolse l’incomodo di decidere se seguirli o meno, avremmo camminato insieme verso la stessa destinazione e io non avrei perso il mio appuntamento al centro studi francese. Meglio così. C’era proprio un’atmosfera allegra sul 70, i musicanti ridevano e scherzavano tra loro e quando l’uomo della busta mi vide e mi salutò in maniera cordiale, sentii che ero invitata a unirmi al gruppo, ma io ricambiai semplicemente il saluto e non mi mossi, con un po’ di rabbia.

Facemmo lo stesso tragitto a piedi dalla fermata a Piazza Navona, dove i musicanti si insediarono nella loro postazione e iniziarono a suonare e il filosofo, quel giorno vestito di verde e bordeaux, si avvicinò alla fontana dove gli uccelli si radunavano e lì si fermò, aprì la busta di plastica blu e iniziò a tirar fuori tozzi di pane e a lanciarli agli uccelli. Alcuni li sbriciolava e li spargeva per l’aria.

Con la testa buttata in alto, la faccia invasata e gli occhi che sembravano invocare qualcosa, l’angelo scuro dispensava briciole come polvere di stelle.